1. Otto mesi prima del 1 luglio 2015

In quegli anni mi occupavo, quando necessario, di cercare spazi per i progetti di accoglienza. Stavamo cercando un appartamento grande, o al massimo due attigui, per avviare un progetto SPRAR per minori. Mi ritrovai, quindi, in un palazzo enorme di quattro piani che conoscevo fin troppo bene.

Era stato occupato fino a pochi mesi prima, precisamente fino al 13 agosto 2014, e ancora stavo lavorando con le persone che ci avevano vissuto. Per dirla tutta, nel pomeriggio di quella stessa giornata mi avevano consegnato la lista lunghissima degli abitanti: 202 persone in totale. Con un compito, chiamarle una per una per indirizzarle verso una nuova sistemazione.

In via Scipio Slataper, quelle persone avevano vissuto momenti di grande sofferenza. Uno di loro si era persino fatto del male. Era un luogo pieno di vita, certo, ma anche estremamente difficile.

Dentro, il palazzo era un disastro. Tutti i letti erano accatastati, e nell’aria aleggiava un odore stantio di unto, sporco, e bagni usati troppo spesso. Le scarpe si attaccavano al pavimento, e quando sollevavi il piede, facevano un rumore simile a quello dello scotch che si strappa. Vetri rotti, porte danneggiate, suppellettili e vestiti sparsi ovunque.

Eppure, tra tutto quel caos, qualcosa cominciava a farsi strada nella mia testa. Non appena varcato l’ingresso, una parola mi era balenata in mente, ma non avevo il coraggio di farla diventare un pensiero completo, tanto meno di dirla all’architetta che era con me.

Tornato in sede, incrociai il Presidente della mia Cooperativa che mi chiese: “Allora, come sono gli appartamenti?”

“Non sono appartamenti.” Risposi in modo vago, perché quando fai il lavoro dell’educatore, quello che vedi e vivi non è solo una questione pratica, ma è anche emotiva, carica di significato. E chi fa il Presidente, spesso, non può permettersi di fermarsi a riflettere su queste cose.

“E quindi, cos’era?” mi chiese di nuovo, insistendo.

Mi ero ripromesso di non dirlo, ma di fronte alla nuova domanda non riuscii a trattenere me stesso: “Eh, da fuori sembra una struttura, o potrebbe diventarlo. Ma soprattutto… mi sembra il DESTINO, Matte.”

Lui scosse la testa, sorridendo con un’aria di comprensione distaccata: “Ah, gli educatori…”

E dire che proprio lui si affidò per primo al destino.